«Effetto» Nirvana
di Hamilton Santià
(Hamilton Santià)

Cloud Nothings. File under: spaccare
Premessa
Tra i vari pregi di abitare, anche solo per qualche tempo, in una global city, c’è la possibilità di vedere dal vivo praticamente tutte le band del mondo. Non si può prescindere da posti come Londra, New York, Berlino, Parigi, Tokyo, se suoni. E quando suoni lì, suoni come se da qual concerto dipendesse gran parte della tua carriera. Sono i contro di una “città globale”. Non puoi scherzare. Ora si fa sul serio. Come dice il personaggio interpretato da Jimmy Fallon agli Stillwater quando, in Almost Famous (Cameron Crowe, 2000), la band arriva a New York: “Fate bene a essere nervosi.” Sono quelle metropoli angolari. In cui si sente il polso delle cose mentre queste stanno accadendo.
Negli ultimi anni, due delle band che più sono state in grado di accendere il mio personale entusiasmo sono state i Japandroids e i Cloud Nothings. Entrambe hanno avuto un grandissimo 2012. I loro rispettivi dischi sono finiti nelle classifiche di fine anno dei siti di riferimento come Pitchfork e Stereogum. Li visti dal vivo a Londra a distanza di poche settimane li uno dagli altri. E nonostante le affinità ideologiche (sia a livello sonoro, sia a livello esistenziale), i due concerti hanno sottolineato alcune differenze fondamentali.
Al netto di una qualità di scrittura superiore alla media, i concerti dei Japandroids (uso il plurale perché a Londra ho avuto conferma delle sensazioni che avevo percepito durante un concerto della band a Barcellona) sono la quintessenza della stilizzazione. Sono un duo che non è in grado di suonare dal vivo come un duo. Ma pur non essendo in grado – batteria e chitarra vanno per i fatti loro, e spesso la sezione ritmica è costretta a inseguire gli svolazzi del cantante: l’impressione è che non si sentano mentre suonano – si ostinano a non assumere nessun bassista. Ci sta. È la logica dietro al loro brand specifico. I Japandroids si sono venduti come un duo. E questo sarà sempre. Un duo. Non una band, un duo. Nonostante questo, e nonostante tutte le impressioni che uno si può fare dall’ascolto dei testi di Celebration Rock, però, Brian King (chitarra e voce) sembra essere più interessato a costruirsi un personaggio cool. Mosse studiate, atteggiamenti sopra le righe, sensazione di distanza tra loro e il pubblico un po’ come se da un lato ci fosse qualcuno che, anche attraverso i monologhi – in linea con i testi delle canzoni – sulla società post-industriale e il consumismo, sembra “volerti spiegare come vanno le cose”. Ci sta. Nessuno è obbligato a una totale aderenza musica-testi-stile_di_vita. Ma questo fa sembrare il progetto della band un po’ più falso e distaccato. Tutto studiato. Tutto preciso. Tutto impostato ad ottenere un determinato effetto. E non è un caso che Celebration Rock sia mediamente presente in più classifiche e in posizioni più alte rispetto a Attack on Memory dei Cloud Nothings. I Japandroids sono il classico gruppo che sta vivendo un momentum, lo sta sfruttando al meglio e cerca di non fare passi falsi nonostante dei concerti che, date le aspettative, non esito a definire deludenti. Ma non sto dicendo siano un gruppo “disonesto”. Quanto un gruppo che fa una netta distinzione tra essere e rappresentazione, come se l’ultima prendesse il sopravvento in determinate situazioni.
I Cloud Nothings, invece, sembrano riportare sul palco una sorta di immediatezza perduta. Salgono davvero coi vestiti che avevano la sera prima. Non si perdono in parole inutili e quando attaccano i distorsori, attaccano i distorsori. I Cloud Nothings spaccano. Ma soprattutto, i Cloud Nothings hanno un senso e una strada da percorrere. Sul palco urlano come se fosse davvero il loro ultimo concerto. E le loro urla sono convincenti. Sono grida di disperazione che non cadono nel vuoto. Anzi. Il pubblico va vicino. Avanza brano dopo brano. Si ammassa davanti al cantante e, addirittura, si unisce in coro. Niente di strano, direte voi. E avreste ragione. Ma i sing-along avvengono su strofe come: “No one knows our plan for us/We won’t last long” (Our Plan) oppure: “I thought/I would/Be more/Than this” (Wasted Days). L’età media è bassa. Le prime file sono occupate da 20-25enni. Ondeggiano su brani da titoli come No Future/No Past. Urlano quel tipo di strofe e si sentono rappresentati. Urlano riportando il sing-along al suo compito principale: non tanto narcisismo distaccato ma espressione di un senso di appartenenza. Se consideriamo anche quanto è diventato importante il concerto nell’attuale configurazione dell’esperienza musicale1, i Cloud Nothings sembrano più attuali, più vicini, più sintonizzati alle cose che stanno accadendo rispetto ai Japandroids.
Ma non è solo una questione di gusto personale o di affinità elettive o, ancora, di infinitesime differenze di tono e stile tra i due gruppi. Quanto una differenza di paradigma. Come se i Japandroids fossero gli alfieri – vagamente di retroguardia – di una sorta di postmoderno realizzato mentre i Cloud Nothings cerchino di usare la musica come mezzo per un ritorno all’onestà e all’espressione esplicita di un sentimento.

Japandroids. File under: post-nothing
Ironia vs Sincerità
La differenza fondamentale, almeno per quanto riguarda gli approcci dal vivo, quindi, sta nel cambio di paradigma. È come se i Japandroids fossero ancora legati al rassicurante distacco ironico. Come se dovessero nascondersi da qualcosa. Nel loro atteggiamento si vede la volontà di creare una sorta di barriera emotiva tra loro e il resto. Come se il cinismo fosse un’armatura impossibile da scalfire. Armatura fatta di citazioni. Si leggano i titoli dei brani: si può quasi comporre un pantheon di riferimento sospeso tra indie-rock (Dream Syndicate, Gun Club) e classicismo (Bruce Springsteen, Thin Lizzy). Citazioni che rivoltano il senso originale creando una sorta di scenario distopico in cui consumismo, capitalismo e aridità umana hanno ormai reso impossibile qualunque genere di empatia. La sensazione, però, è che un atteggiamento del genere sia inesorabilmente fuori dal tempo. Non voglio salire a tutti i costi sul carrozzone di chi urla la fine del postmoderno a tutti i costi perché è così, ma qualche considerazione va fatta. In molti campi della critica e dell’analisi si stanno argomentando tesi sul ritorno del reale. Per David Shields2, ad esempio, il proliferare di frammenti documentaristici e autobiografici nei romanzi, il ricorrere a una narrazione in prima persona, e l’esplosione del memoir come genere letterario (non importa se vero o autentico, ma come genere in grado di garantire un certo effetto) risponde all’esigenza di una fame di realtà. Per Geoff King, invece, il cinema contemporaneo americano viaggia su una doppia strada in cui il confine tra empatia e distacco emotivo è non solo sottile, ma spesso addirittura inesistente3. In Italia, poi, è in atto una proficua e stimolante querelle culturale iniziata dal filosofo Maurizio Ferraris sul ritorno del reale come esigenza pragmatica per distaccarsi dai danni residuali del pensiero debole4. Questa tesi è stata sposata, tra gli altri, da Umberto Eco con alcuni recenti interventi pubblicati su Repubblica e alfabeta2 (e nel recente volume pubblicato da Einaudi Bentornata realtà5). Già nel 1985, il semiologo alessandrino, pubblica le Postille al suo Il nome della rosa in cui rifletteva sulla piega pericolosa che il reame dell’ironia – per cui tutto diventava postmoderno – poteva far prendere a tutta la produzione culturale.
Quando una rivista come The Atlantic, per rispondere a un editoriale “fuori tempo massimo” del New York Times – in cui si esegue l’ennesima tassonomia sull’hipster come “alieno metropolitano apolitico”6 – afferma che è ora di alzare il tiro e smetterla di fermarsi alle solite argomentazioni, esprime una posizione chiara. La Generazione Y, nata nella rivoluzione digitale e che ha subìto l’influsso dell’ironia e del postmoderno grazie al sistema dei media e i fratelli maggiori della Generazione X sta ritornando alla sincerità, sta rifiutando il distacco ed è alla ricerca del “proprio” reale. Non dobbiamo confondere, però, questa ricerca con il mito dell’autenticità a tutti i costi. Un mito che rischia di essere costruito e stilizzato al pari di chi ancora si arrocca nella confortevole nicchia del distacco ironico. Quello che sta accadendo è qualcosa di diverso.
Si può fare una distinzione del genere anche sulle persone? Probabilmente no, ma se consideriamo i testi e le tendenze che stanno emergendo si percepisce che qualcosa sta cambiando. E il cambiamento sembra portare alla luce un certo tipo di esigenza che, in musica, i Cloud Nothings sembrano aver intercettato. Spingendo il pubblico a unirsi, urlare e riconoscersi in versi in cui si esplicita il disagio generazionale post-crisi economica, la band di Cleveland segnala i sintomi e le urgenze di una generazione che sta cercando una voce. E lo fa attraverso il ritorno a un’elettricità incazzata capace di rappresentare la sincerità di un disagio reale e di una precarietà esistenziale. Precarietà esistenziale che si cerca di combattere in qualche modo.
From here to… quale «Effetto»?
Un ultimo appunto sul titolo di questo articolo: «Effetto» Nirvana. In un diverso contesto, con una diversa configurazione e in uno scenario infinitamente più stratificato e dispersivo (e sono passati solo vent’anni!), i Cloud Nothings sono riusciti a farsi carico e ad intercettare il disagio generazionale degli under-30, anche se non avranno mai quel tipo di influenza né quel potere di incidere e di far cambiare qualcosa. Non per mancanza di strumenti o di capacità, ma per colpa di una ridefinizione delle “gerarchie culturali” in cui la musica sembra non essere più in grado di essere la forza eruttiva capace di creare una sorta di punto fondamentale nella storia. Si parla dell’uscita di Nevermind e del 1991 come uno spartiacque generazionale e sociale. Ma è stato forse l’ultimo cambiamento in cui la musica è stata agente attiva. Il senso, però, è lo stesso. Ed è significativo il fatto che questo avvenga attraverso l’indie-rock riportato alla sua funzione primitiva di suono abrasivo, dirompente e distintivo. Adesso, questa musica è una musica tra le tante, ma forse ancora in grado – se fatta non tanto con autenticità (che in questo senso rimanda più a un immaginario classico che vede ancora in gente come Springsteen e Neil Young i suoi alfieri) quanto con sincerità – di farsi portatrice non solo del disagio ma anche di una reazione caratteristica. Non sto dicendo che il rock è più sincero dell’hip-hop o della dubstep. Sono tutte tendenze che hanno il loro senso specifico e la loro forza che infatti, nonostante le infinite sfaccettature, viene intercettata da un pubblico ideale. Credo però la rabbia dei Cloud Nothings sia espressa meglio grazie al tono delle loro chitarre. Una rabbia e una sincerità che non si percepisce nei Japandroids, ma anche in altri gruppi (come i Soft Pack o gli Yuck) che negli ultimi anni hanno cercato di proporsi come esponenti di un revival anni Novanta in cui si prendevano le chitarre ma se ne smarriva l’insegnamento.
2 Cfr. David Shields, Fame di realtà. Un manifesto. Fazi, Roma 2011.
3 Cfr. Geoff King, Indie 2.0. I.B. Tauris & co., London 2013.
4 Cfr. Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012.
5 Cfr. Mario De Caro, Maurizio Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione. Einaudi, Torino 2012.
6 Ricordo la necessità di fare una distinzione tra la nostra percezione dell’hipster e quella del mondo anglosassone. Da noi il fenomeno sta accadendo ora con il consueto lustro di ritardo rispetto a Londra e New York. Oltre la Manica e l’atlantico, invece, è qualcosa di ormai perfettamente assimilato e integrato nel tessuto urbano.
Da quando in qua la “sincerità” (concetto che, naturalmente, non viene definito neanche per sommi capi) costituisce la base o la prospettiva per un tentativo malriuscito di analisi musicologica? Arisa ha mietuto vittime anche nella critica? Hakkinen Borgovercelli, o come diamine si chiama, si aggiunge alla vasta schiera di chi scrive di musica senza saperne nulla. Ed è un nulla esistenziale, più che un nulla “tecnico”.
E dire che n’è già tanta, in giro, di gente così.
Un articolo inutile.
Gentile sig. McBee,
pur essendo convinto che – dato il tono del commento (Hamilton-Hakkinen? Santhià-Borgovercelli? Andiamo. A che gioco stiamo giocando?) – ogni mia puntualizzazione non cambierà di una virgola il giudizio, provo a rispondere su alcuni punti.
– Non è vero che non accenno al problema della “sincerità”. Cito articoli, libri, interventi e cerco, nel breve, di esporre le varie posizioni soprattutto in opposizione al paradigma dell'”ironia” (potevo rimandare a David Foster Wallace, ma avendolo già citato diffusamente lungo questi interventi, ho preferito passare ad altre fonti, più recenti). Se non sono riuscito a far capire la mia posizione e in che orizzonte mi muovevo, prendo atto e cercherò di essere più chiaro in futuro.
– Questa non è affatto un’analisi con pretese di musicologia. Non ne ho le competenze e non mi interessa. Quello che volevo proporre era una riflessione (per quanto stringata) su come due approcci diametralmente opposti di due band per certi versi molto simili possano essere intesi come sintomi di un determinato approccio culturale.
Visto che il sig. Santià pretende di scrivere di ironia pur non avendo imparato a riconoscerla ed apprezzarla , mi vedo costretto ad eliminare ogni lusus dal mio discorso.
Risponderò semplicemente, quindi, ai due punti:
– La dicotomia ironia-sincerità non sta in piedi. Mi sembra una prospettiva arida e semplicistica, forse anche un po’ manichea. Forse che i succitati Nirvana (per citare solo uno degli svariati esempi che si potrebbero fare, da Monk a Louis Armstrong, a Hermeto Pascoal, a Captain Beefheart, agli stessi Beatles delll’album bianco) non erano sinceri ed ironici a un tempo?
Brani come In Bloom, “sincera” nella musica e “ironica” nel testo, Territorial Pissings e persino alcuni passaggi del testo di Pennyroyal Tea erano profondamente ironici, ma non per questo “non sinceri”.
Non si può definire, come si cerca di fare qui (se ho ben capito dalla sua replica, visto che dall’articolo non emerge neanche questo punto) la sincerità “per difetto”, come mancanza di ironia.
Forse, sig. Santià, dovrebbe leggere e citare (come se le citazioni, poi, costituissero di per loro un argomento valido) un po’ meno libri di Ferraris e Wallace, e aprire un po’ di più le orecchie quando ascolta un disco.
– Se questa non è un analisi con pretese di musicologia, dovrebbe allora spiegare che cos’è, e soprattutto come si può prendere in considerazione la produzione discografica di due gruppi senza nessun tipo di analisi della forma musicale.
Io direi che equivale a pretendere, ad esempio, che esista una critica letteraria che si disinteressi completamente dello stile di un autore.
Purtroppo mi pare il problema sia sempre quello di cui Frank Zappa parlava anni fa, a proposito della “critica rock.”
Saluti.
Caro sig. McBee,
ribadisco che la pretesa dell’analisi in questione è ‘culturale’, come tutto il taglio di questo blog. Credo che ci sia un misunderstanding sul concetto di ironia (e in questo senso non escludo di non essermi spiegato perfettamente). Io parlo di ‘ironia’ come categoria interpretativa. Di atteggiamento distaccato, disinteressato, anti-empatico e figlio di una certa scuola postmoderna. Non è tanto pescare i giusti esempi che lei porta alla mia attenzione, perché non è di questo che ho voluto parlare.
La questione, semmai, parte prendendo come esempio due band musicali ma non si ferma lì perché interessa questioni di approccio, atteggiamento, ricezione e connotazione che si potrebbero (e si dovrebbero) applicare anche oltre i confini del ‘testo’ mono-disciplinare. Credo si possa parlare di questo prendendo come esempio due band senza parlare di ‘stile’ inteso come categoria a sé stante e staccato dal resto.
Saluti.