Indiexploitation e Taylor Swift.
by Hamilton Santià
(Hamilton Santià)
Avete presente Taylor Swift? Una delle tantissime reginette del country che negli Stati Uniti vendono ancora badilate di dischi e che in Europa si accontentano di arrivare una volta ogni tanto con qualche canzone dal ritmo più esotico o al traino di qualche colonna sonora (vedi alla voce Shania Twain e LeAnn Rhimes). Qualche anno fa, Taylor Swift si affacciò dalle nostre parti con Love Story, brano zuccheroso e appiccicoso che rispetta pienamente la retorica del pop adolescenziale portato in voga dai circuiti Disney e da gente come Hilary Duff e i Jonas Brothers (con uno dei quali, Swift, tra l’altro, usciva). Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Ciao Taylor e tanti saluti in attesa della prossima one-hit-wonder.
Cos’è successo, nel frattempo? Prima di tutto, Taylor non esce più con uno dei Jonas Brothers. E’ infatti la promessa sposa dell’ultimo rampollo dei Kennedy, la famiglia reale americana. La sua immagine pubblica, quindi, deve obbligatoriamente passare da country-queen con immaginario di bicchieroni di latte e torte di mele a preppy queen con gite in barca, camicie di Tommy Hilfiger e costa Est. Moltissima costa Est. Non ho la certezza matematica che le due cose siano correllate, ma è altrettanto curioso considerare che a una nuova configurazione dei rapporti personali, coincide una riconfigurazione dello stile musicale e dell’immagine pubblica di Taylor Swift. Più “fine”, più sofisticata, addirittura più ambiziosa e più sfumata. Il risultato arriva dal curioso caso di We Are Never Ever Getting Back Together, ultimo singolo della futura First Lady. Canzone pop da alta classifica che, però, mischia parecchio le carte in tavola e diventa un curioso oggetto d’analisi a livello culturale.
Prima di tutto le immagini promozionali.
Taylor seduta in un parco in tenuta da Ivy League, frangia “sbarazzina il giusto”, occhialoni da sole e rossetto acceso dal gusto vagamente retrò. Una impostazione nostalgica che ricalca sia l’immaginario “preppy” di cui sopra, ma anche una sorta di condensato di stereotipi twee portati avanti da gruppi come Belle & Sebastian e Club 8. Se mettiamo vicino la copertina del singolo di Love Story, si noterà un mutamento significativo. Anche solo grazie all’utilizzo dei caratteri tipografici laddove i primi suggeriscono un aderenza a modelli culturali più elevati (non imbelletto la scrittura perché bado ai contenuti) e i secondi frivolezza sognante da fiaba contemporanea (… e da qui potrebbe partire tutta una digressione delle possibilità narrative offerte dal successo di Harry Potter e Twilight che però non ho né l’intenzione di fare né le competenze). Potrebbe essere l’ennesimo caso di volgarizzazione dell’indie? Almeno a livello di immaginario? Potrebbe. Anzi, lo è decisamente.
Ecco il video:
Musicalmente non c’è molto da dire. Mi sembra un pezzo che si inserisce in una certa tradizione mainstream contemporanea che punta tutto sull’estrema essenza di un ritornello “catchy” e di un ritmo sostenuto che mischia più elementi provenienti da tradizioni di successo. Ancora una volta, niente di nuovo. Ma ci sono alcune cose interessanti. La prima riguarda, ancora una volta, l’immagine di Taylor Swift e la sua relazione con lo “spazio” del video clip; la seconda, lo stile e le citazioni del video in sé; la terza, una frase in particolare del testo. Andiamo con ordine:
1. Taylor Swift
In anni in cui siamo stati abituati a una sorta di eccesso stilistico per come le dive andavano in giro vestito (il barocchismo conclamato di Lady Gaga, Katy Perry, Rihanna, etc.), la “narrazione sottrattiva” di Taylor Swift rappresenta un caso particolare. Nel video, la cantante mostra il suo nuovo guardaroba preppy e si concede anche qualche nota proveniente da un universo fumettistico e “twee” come il pigiamone di flanella e gli occhiali a montatura spessa (esempio fondamentale di accessorio cross-over che colpisce tutti, dalle dive del pop da classifica ai giornalisti passando per i gestori del blog che state leggendo). Il nuovo stile è ricercato ma non eclettico. Non è aggressivo, non vuole colpire o creare un qualsivoglia effetto “scopico”. Questa nuova immagine si inserisce nel lungo catalogo di ibridazioni tra immaginario alternativo (il già citato pop “twee”), intellettuale e mainstream. Uno dei primi casi che vale la pena citare, è stata la campagna pubblicitaria di Tommy Hilfiger in cui si presentavano una sfilza di giovani in tenuta da altissima Ivy League con vestiti dal taglio vagamente “atlantico” sotto il brand The Hilfigers. Una firma che richiama non solo nominalmente, ma anche nella messa in scena e nell’impostazione dell’immagine (inquadrature frontali, toni di fotografia “antiquati”, sensazione di essere fuori dal tempo) i film di Wes Anderson. Questo non vuol dire che Swift voglia citare direttamente The Royal Tenenbaums, semmai che un certo tipo di immaginario è ormai inequivocabilmente sdoganato e non c’è niente che si possa fare a riguardo. Nessuna crisi di gelosia, insomma, o di fastidio. Prendiamo atto e vediamo cosa se ne può fare. Semmai è la dimostrazione di come i confini (purtroppo? per fortuna?) non esistano più. Se è accettabile che il mondo dell’indie citi il mainstream, allora non dobbiamo scandalizzarci che il mainstream citi e attinga a piene mani dagli aspetti più vendibili e replicabili dell’indie. Come, appunto, l’immagine, l’immaginario e il vestiario.
2. Il videoclip
L’avete visto? Vi ricorda qualcosa? Esatto. E’ esattamente un video di Michel Gondry senza che Michel Gondry c’entri alcunché. Il regista, tale Declan Whitebloom, ha all’attivo collaborazioni con Carly Rae Jepsen (quella di Call Me Maybe), One Direction, Pixie Lott e i Fray. Non un curriculum invidiabile dal punto di vista artistico. Probabilmente è un videomaker privo di qualsivoglia progetto estetico, che lavora su commissione e cerca di fare bene i compiti che gli sono stati assegnati. Ci sta. Non tutti possono essere degli artisti o dei geni. In questo caso, però, Declan si supera proponendo un esatto calco stilistico di Gondry, uno di quelli che ha garantito al videoclip l’elevazione a forma di comunicazione di un certo livello. Prima di tutto, siamo stilisticamente dalle parti di Protection dei Massive Attack e Star Guitar dei Chemical Brothers: un finto piano-sequenza in cui tutte le parti sembrano in continuità grazie ai miracoli della post-produzione in digitale. Per quanto riguarda i contenuti, poi, siamo alle ossessioni di Gondry per i pupazzi, per le cose di cartone e per gli scenari irreali che si sviluppano a un muro di distanza. Niente di più di quanto visto nei video per Bjork (Human Behaviour, Bachelorette), Foo Fighters (Everlong) e Beck (Deadweight) oltre a film come Eternal Sunshine of the Spotless Mind e The Science of Sleep. Questa sorta di “eredità” può essere sfruttata in un contesto differente sia ideologicamente che musicalmente come quello del mainstream pop per il semplice fatto che “l’alternativa” non è più percepita come “alterità” pericolosa e perturbante. L’indie è ormai un contenitore di scelte possibili da inglobare e da vendere.
3. Il testo
Qualora si fosse solo trattato di un’operazioncina sull’indie come ce ne sono tante, non sarebbe stato molto interessante, ne convengo. Ormai sarebbe ingenuo stupirsi di questo fatto. Ma c’è una cosa che più di tutte mi ha colpito. Più dei riferimenti a Gondry, più del cambio di guardaroba, più degli occhialoni. Ad un certo punto, il testo recita così:
And you, will hide away and find your piece of mind
with some indie record that’s much cooler than mine
Quello che da alcuni è stato visto come una presa in giro nei confronti dell’indie, in realtà è qualcosa di più sottile e stratificato. Da un lato, è un atteggiamento quasi di trolling nei confronti dell’atteggiamento indie in quanto atteggiamento snob e distaccato che pone una certa distanza tra chi si occupa di cultura in maniera diversa. Quasi una sorta di accusa nell’indie di rimando come “falsa coscienza”. Dall’altro, invece, è un utilizzo del termine che indica una determinata differenza. Quello è indie, questo no. E’ una distinzione netta. In bocca a un’artista mainstream, il termine indie non è un’appropriazione indebita ma un’ammissione di onesto distacco. Questo è un altro gioco, ci sono altre regole. E’ un’altra cosa. E’ più “bassa” e meno ambiziosa, ma è comunque qualcosa che può funzionare. Un gioco non tanto anti-intellettuale, quanto capace di confermare che pur nell’universo delle infinite sfumature che è l’attuale calderone dell’espressione culturale contemporanea, qualche differenza è ancora possibile (e forse è doveroso tornare a farle).
Tutto questo per dire cosa?
Probabilmente che il cambio di direzione di Taylor Swift è sintomatico di un cambio di atteggiamento nei confronti di quella frangia dell’indie che, dai tempi di The O.C., si è definitivamente sdoganata ricadendo a più riprese in particolari ambienti industriali. Ribadendo ormai l’ovvio passaggio dall’indie come controcultura all’indie come cultura di consumo, è necessario quindi ripartire da quegli elementi di scarto e differenza capaci di creare delle narrazioni significative. Non è un nostalgismo retromaniaco, quanto una necessità di ritrovare anche noi la nostra “peace of mind”. Forse non sarà più quella cultura di opposizione di cui tanto magnificavamo i fasti qualche anno fa, ma può essere ancora un bacino culturale interessante. In quanto a Taylor Swift, va detto che ha azzeccato un singolo perfetto per quello che vuole essere e rappresentare. Probabilmente alzare il livello “intuitivo” del pop da classifica è un atteggiamento che può prendere direzioni diverse. Questa è una delle vie possibili. Se non altro perché ci aiuta a ricordarci che non siamo noi i soli ad essere affezionati alle distinzioni.