Note da un festival: brand, pubblico, conflitto.

di Hamilton Santià

(Simone Dotto, Hamilton Santià)

Dopo i pareri a caldo, i tweet, le foto, è ora di entrare nel merito e guardare al Primavera Sound in maniera diversa. Non ha più molto senso, nell’era della comunicazione istantanea, perdere caratteri per una recensione ragionata concerto per concerto. Sia perché il festival è ormai diventato un evento collettivo che tutti – anche chi non è presente – possono esperire attraverso i media (non ultimo, l’espediente dei concerti in streaming), sia perché un approccio del genere finirebbe per raccontare poco di quello che veramente “succede” all’interno dei festival in quanto parte per il tutto di un sistema musicale che sembra affrontare un cambiamento epocale a 360 gradi.

The Shape of Indie has come

In una puntata de I Simpson, Otto Disk, l’autista del pulmino scolastico che pare uscito da Wayne’s World, racconta a Bart la sua gita a Woodstock ’94, evento definito “la nostra estate dell’amore”. Ad un certo punto, durante il flashback, una carrellata mostra come tutta l’area del festival sia disseminata di brand e loghi di multinazionali e quando Otto, in fiamme, cerca di comprare una bottiglia d’acqua, non può permettersi gli 8 dollari richiesti per una bottiglietta da mezzo litro. In uno dei documentari dedicati al mega concerto (My GenerationThomas Haneke e Barbara Kopple, 2000) si evince come ormai questo genere di eventi siano destinati a essere terreno di conquista delle multinazionali. Era il 1994. Cobain stava per diventare il martire del rock indipendente. Quasi vent’anni fa. E adesso dove siamo? Siamo arrivati al punto in cui l’industria discografica non esiste più, i grandi conglomerati e le grandi marche hanno sdoganato ancora una volta l’underground e l’indie (dopo gli hippie, i punk e i grunge) e non sembra esistere nessun movimento sotterraneo capace di smuovere le acque. Come ha detto il nostro amico Carlo Bordone sull’ultimo numero de Il Mucchio Selvaggio (Lug. 2012), siamo di nuovo nel 1975.

Ma a differenza di allora, non sembra intravedersi all’orizzonte nessun punk.

Frequentiamo il Primavera Sound di Barcellona da sette anni. E quest’anno, vivendolo in maniera differente – non secondo una routine consolidata in cui timbrare il cartellino dei live era più importante che capire effettivamente cosa si stava facendo – abbiamo potuto constatare un’intuizione che già avevamo avuto andando a vedere concerti in giro per lo stivale negli ultimi anni. Il pubblico è cambiato. È avvenuto il tanto atteso “ricambio generazionale” ma gli effetti non sono stati quelli sperati. Di solito, il nuovo che avanza soppianta il vecchio: porta nuova energia, mescola le carte, permette a tutto il sistema di non fermarsi e di non cadere vittima dell’autoreferenzialità. Si pensava, poi, che la cosiddetta internet generation portasse con sé le novità di un nuovo approccio creativo alle cose musicali (che non possono più, questo va ammesso, continuare con la logica che conosciamo perché l’intero apparato produttivo sembra un dinosauro che si sta estinguendo giorno dopo giorno) grazie all’utilizzo creativo e costruttivo di pratiche come il culture-jam, il remix e il mash-up. Sembra, però, che per la prima volta nella storia (o, almeno, per la prima volta dal Novecento), l’esplosione della nuova generazione abbia rafforzato da un lato la potenza dei grandi apparati – non ci sono più elementi di rottura, in realtà la nostra trasgressione è una spinta alla normalizzazione del nostro stesso istinto creativo, siamo schiavi della nostra stessa indessicabilità e quindi anche se crediamo di fare “democrazia dal basso” in realtà perpetriamo lo stesso identico sistema di lavoro – e dall’altro garantito una standardizzazione del gusto per cui non esiste più nessun limite da affrontare e quindi tutto sembra diventato uguale a tutto e allora tanto vale passare all’incasso con uno zapping sfrenato che crea confusione. Come ha recentemente scritto e dichiarato in più occasioni Umberto Eco, l’eccesso di informazioni della nostra epoca porta a una confusione sempre più grande.

Il contesto del festival è, quindi, quella di un mini-universo ipercondensato governato dalle logiche del brand e delle strutture dell’appartenenza (o della costruzione della). Certo, ogni evento che si rispetti ha bisogno di sponsorizzazioni pubbliche e private per tutta una serie di motivi che possiamo anche non spiegare. Ma il sistema del brand agisce a un livello più sottile, perché non si limita a manifestare la sua presenza: “Ci sono. Sono la multinazionale del caso. Eccomi qui. Ho reso possibile questo ben di dio a misura del tuo portafoglio”, ma agisce per costruire una sorta di immagine alternativa. È come se tutte le marche presenti plasmassero l’identità alternativa e indipendente dell’avventore del festival. Ti muovi in un universo di marche né più né meno come se fossi al grande centro commerciale posto subito fuori dall’area del festival, ma le percepisci come qualcosa tagliato su misura per la tua identità. Non siamo così fessi da credere che un evento internazionale possa essere sganciato dalle logiche di mercato (del resto, la gente deve pur bere o mangiare), ma la commercializzazione e brandizzazione del festival si inserisce in una logica industriale pura e semplice. Come se si volesse combattere la crisi dell’industria discografica portando alle estreme conseguenze il sistema del festival. Una volta il Primavera era il festival simbolo della musica indie, adesso invece è il principale indicatore del suo stato di salute. Il nuovo pubblico è cambiato secondo le tendenze che, anno dopo anno, si sono avvicendate sui sempre più numerosi palchi del Forum. E la radiografia di questo cambiamento non fa stare molto allegri. Non tanto per lo stato di salute della musica, ma per la forza del suo pubblico, che non è solo una diretta conseguenza quanto un meccanismo di intercomunicazione. La musica è il suo pubblico e il pubblico è la sua musica.

Il famigerato problema degli hipster, quindi, può essere visto come il sintomo di una crisi estetica e culturale. La musica non ha più la forza di rottura perché il suo stesso pubblico non è interessato a creare una cultura di opposizione, ma preferisce ottundersi in un sistema che garantisce un determinato tasso di trasgressione da una prospettiva comunque accomodante. I vestiti comprati da H&M, le scarpe ConverseNike o Adidas, il consumo di birre di grande portata, alcolici appartenenti a grandi apparati e così via. La parola chiave è “grande”. Non è un problema, sia chiaro. Basta esserne consapevoli. Non c’è più ribellione. Non c’è più nessun tentativo di costruzione alternativa. C’è solo un confine sgretolato in cui questo consumo “ironico e consapevole” (la divisa hipster è un trionfo dell’auto-ironia in cui tutto prende le distanze da tutto il resto) si trasforma nella sua negazione: un conformismo non ironico e non consapevole.

Come ogni divisa, anche quella della generazione 2.0 è ad alto rischio di omologazione.